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Regen Habitat

Per capire l’entità delle agroforeste in Italia, Deafal ha condotto un’indagine delle realtà esistenti per comprenderne le caratteristiche, l’impatto ecologico e sociale e le tante peculiarità. 

Questa serie di interviste nasce dalla volontà di raccontare alcuni dei progetti incontrati, come sono nati, cosa li caratterizza e il loro rapporto con il territorio e le persone che li circondano. 

Giuseppe Sannicandro ci racconta il progetto Regen Habitat, un’associazione no profit che si occupa di insediamenti umani progettati in armonia con l’ambiente. 

Le interviste sono state realizzate nell’ambito del progetto AGES, Agroforesta Ecologica e Sociale, finanziato dall’Istituto Buddhista Italiano Soka Gakkai, con il coordinamento della cooperativa sociale Qualcosa di Diverso, che gestisce l’azienda agricola XFarm agricoltura Prossima.

in cosa consiste il progetto regen habitat? puoi farci un focus sulla parte agroforestale?

L’associazione Regen Habitat ha sede a Palombaio, una frazione del comune di Bitonto a nord di Bari. Già ormai da più di dieci anni, io personalmente progetto, pianto e insegno sia permacultura che agricoltura rigenerativa e, più in particolare, sistemi agroforestali. 

A Palombaio, nella nostra base, gestiamo circa due ettari e mezzo di terreno, che sono ormai completamente agroforestati.

Purtroppo, l’anno scorso, il 19 luglio, un incendio ha distrutto il 90-95% della nostra agroforestry, riportandoci indietro di cinque o sei anni, quando avevamo appena iniziato a rigenerare il terreno. Quest’inverno, però, abbiamo ripiantato l’agroforestry che avevamo prima.

In questo posto ci occupiamo di agroforestry, quindi di coltivazione diretta in sistemi agroforestali. Quello che noi chiamiamo il campo vecchio, cioè quello che gestiamo da più tempo, era precedentemente un mandorleto di 30 anni che poi abbiamo interpiantato con tutte le altre specie che abbiamo inserito nel sistema, un retrofitting quindi.

Poi l’altro ettaro e 2 che abbiamo preso l’anno scorso era quasi completamente vuoto e lì abbiamo sperimentato vari altri sistemi agroforestali.

In totale abbiamo circa 6 o 7 modelli diversi che stiamo coltivando e testando.

La parte di test serve non solo ad avere più varietà. Qui ospitiamo anche eventi, ma soprattutto corsi e workshop vari. Quindi auto acquistiamo il prodotto per nutrire i partecipanti, ma al di là di questo, ci serve avere varietà non solo per la produzione, ma anche e soprattutto per testare modelli diversi che poi andiamo a proporre nelle nostre presentazioni e nelle nostre implementazioni in altri posti. 

Quest’anno dovremmo più che raddoppiare la superficie gestita. La nostra missione è espanderci ogni anno, compatibilmente con le risorse umane ed economiche, creando modelli che possano essere esempio per colture e risorse diverse. Cerchiamo quindi di fare quantità di ettari e di ecosistemi rigenerati attraverso l’agroforestry e l’agricoltura rigenerativa. 

Abbiamo alcuni terreni, alcuni dei quali con accesso limitato all’acqua, che entreranno in gestione. Vogliamo testare non solo colture diverse, ma anche strategie per gestire terreni con risorse abbondanti, come acqua e materia organica, e terreni, come molti in Puglia e nel resto del mondo, dove queste risorse devono essere prodotte in loco fin dall’inizio.

L’obiettivo è quello di arrivare nell’arco di circa cinque anni a più o meno una trentina di ettari gestiti dal nostro gruppo.

Qui non ci occupiamo solo di coltivazione, ma anche di diffondere concetti e strategie di agroforestazione e progettazione ecologica, in particolare tramite la permacultura.

Abbiamo una grande struttura di 400 metri quadrati, un edificio storico di 200 anni con una neviera del ‘500, che ospita tra le 10 e le 12 persone fisse, di cui 3-4 nel team centrale, e altre 6-8 persone che restano a lungo (da 2 a 6 mesi).

Inoltre, accogliamo anche visitatori a breve termine che restano una settimana o un mese per imparare le tecniche di agricoltura rigenerativa e agroforestazione, sperando che queste conoscenze vengano applicate in altri progetti.

Infine, ci occupiamo anche di biocostruzione e tecnologie appropriate, offrendo un approccio completo all’ecologia applicata ai sistemi produttivi e non umani.

perché è nata l’idea di implementare i sistemi agroforestali come strumento? quali sono stati gli aspetti che vi hanno spinto a scegliere questa soluzione?

Io dico spesso che l’agroforestry è un po’ la scusa economica per fare ecologia, quindi l’obiettivo è primariamente ecologico. 

Sappiamo che per fare ecologia è necessario avere risorse, sia in cibo che in fondi economici, per sostenere il processo. Per questo abbiamo scelto di combinare entrambe le cose.

Già dal 2012, io personalmente ero appassionato e praticante di permacultura, all’inizio con altri sistemi meno complessi come quelli più dedicati all’orto e all’inizio sinergico, poi bio-intensivo, poi appunto anche grazie a forze organizzate da Deafal, l’agricoltura organica e rigenerativa di Jairo. Insomma, abbiamo integrato sempre più le proposte. 

Abbiamo anche selezionato, alcune non le pratichiamo più, siamo arrivati a delle conclusioni sempre temporanee,  di quali fossero le strategie più funzionali al fare ecologia e a renderla sostenibile da un punto di vista produttivo, se non proprio direttamente economico. Poi nel 2018 io sono stato da Ernst Götsch, il fondatore dell’agricoltura sintropica, per un internship,

Dal mio punto di vista, il concetto di “food forest” o “forest garden”, spesso visto come un giardino, è stato trasformato in qualcosa di più agricolo. Lui ha adattato l’idea affinché potesse essere applicata su ettari di terreno, e non solo su piccole superfici di centinaia di metri quadrati.

Dopo l’esperienza di Ernst Götsch, sono stato anche da alcuni suoi allievi e ho visto il sistema applicato in contesti sia climatici che socioeconomici diversi sia in Brasile ma poi anche in Europa.

 Abbiamo sposato in maniera dominante l’approccio dell’agricoltura sintropica, pur integrando con altre tradizioni in un certo senso o altri contributi come appunto quello di Jairo, Ellen Ingham e altre fonti che hanno studiato alcune parti. Chi più la microbiologia, chi più la parte minerale o il buon compromesso tra ecologia ed economia che lo rendesse poi efficace nell’espansione su ettari, come appunto fa Jairo e così via.

Ci piace un po’ sperimentare, sì, però sperimentare sempre con un occhio pratico più che puramente teoretico su cosa è perfetto.

Noi cerchiamo di andare su cosa ci dà il giusto compromesso, pur non essendo perfetto, cerchiamo di andare su cosa ci permette realisticamente di colonizzare un po’ più ettari e anche allo stesso tempo ci permette di creare, come direbbe Ernst, più quantità e qualità di vita consolidabile. 

Prima hai parlato nell’ottica di sperimentare, di trovare la giusta via. Hai parlato di diversi modelli o moduli di agroforeste. Ti va di farci un po’ una carrellata o di spiegarci in che modo differiscono, come funzionano? 

Allora, provo ad andare un po’ geograficamente sui nostri terreni. 

Noi abbiamo un sistema che è leggermente più protetto dai venti freddi di Maestrale e Tramontana, dove abbiamo concentrato soprattutto le piante subtropicali o comunque quelle più sensibili al freddo. 

Abbiamo due agrumi diversi, l’agrumeto, ma con anche altre piante subtropicali come il Sapote blanco, la guava, il pera-melone, è un po’ il nostro parco giochi. 

Io sono appassionato di piante tropicali, quindi è un po’ dove ho la piccola collezione delle piante che sicuramente non coltiverei qui in grande scala, però come sfizio personale qualche centinaio di metri quadri l’abbiamo dedicato a un sistema che ricorda un po’ più i tropici. È prevalentemente sempreverde quindi anche le piante da supporto sono prevalentemente sempreverdi come eucalipti, acacia salina, il falso boldo e così via. 

Questo è per esempio uno dei sistemi, il focus sono invece prevalentemente agrumi e altre piante subtropicali. 

Poi c’è la parte di quello che chiamiamo campo vecchio che era un ex mandorleto 5×5 classico e intanto l’abbiamo reso non più quadrato, ma a file, quindi è diventato un 5×25, ma centimetri. Quindi ci sono delle file dove lungo le file dei mandorli c’è una pianta più o meno ogni 25 centimetri o comunque una postarella di semi che poi ha dato vita anche a più di una pianta, quindi ci sono delle aiuole agroforestali ogni cinque metri.

Siccome all’inizio era l’unico terreno che avevamo a disposizione, e volevamo piantare un po’ di più, abbiamo sacrificato all’efficienza la possibilità di avere più piante. Per questo abbiamo inserito una ulteriore fila centrale un 0,25 per 2,5, quindi un sistema abbastanza denso che non consiglierei per sistemi agricoli più estesi ovviamente.

La meccanizzazione è possibile, ma non diciamo non è agevole.

E’ stato il nostro primo sistema. 

Il nostro secondo sistema più intenso, non ha osato così tanto come appunto quello più subtropicale.

Nel retrofitting di questo mandorleto, abbiamo messo sostanzialmente frutta mista e piante da frutta secca miste, stratificate secondo appunto gli strati e il fabbisogno di luce, però sostanzialmente è un sistema molto misto che poi dopo l’incendio diciamo è stato quasi azzerato. Addirittura abbiamo dovuto tagliare il 90% dei mandorli alla base. 

Quest’anno hanno già ributtato dei succhioni e probabilmente saranno innestati, anzi questa è la nostra idea, nella prossima primavera saranno innestati con altre drupacee quindi susino e albicocco sostanzialmente. Questo perché in un sistema così stretto, per esempio il mandorlo che viene raccolto con le reti non era super agevole. E’ possibile, li abbiamo raccolti quelli rimasti anche quest’anno e li abbiamo raccolti per cinque anni in questo sistema, ma resta il fatto che non sia agevole. E’ stato un compromesso consapevole che però ha perso in agilità il sistema. 

Poi, invece, abbiamo nel cosiddetto campo nuovo,  un sistema che ha focus sulla vite e sul gelso in particolare, più le piante da supporto, che non sto a nominare perché arriveremo a 150 specie e 200 varietà circa. Diciamo solo che le piante produttive sono prevalentemente gelso e vite.

Dopodiché ce n’è un altro con pero e alternati pesco e susino. Poi ce n’è un altro che ha come piante focus albicocco, fico e noce. 

Un’ottima carrellata. abbiamo un quadro generale in modo da riuscire a collocare quello che ci dicevi prima. Invece, secondo te, durante il corso degli anni e a seguito delle esperienze che sono state portate avanti, gli obiettivi di cui parlavamo prima sono cambiati, si sono evoluti in qualche modo o continuano a rimanere gli stessi, con magari delle aggiunte?

Dunque mi chiedi se le condizioni del suolo e dell’ecosistema sono cambiate se ho capito bene la domanda?

Più generale, se proprio gli obiettivi iniziali, dal punto di vista della progettualità e in seguito alla realtà dell’evoluzione dei sistemi che avete effettivamente piantumato, sono cambiati. 

Gli obiettivi generali no, non sono cambiati.

L’obiettivo era rigenerare il più possibile e quello è rimasto.

E’ cambiata la progettualità sicuramente, anche perché proprio il progetto ha avuto un’evoluzione di numero di persone coinvolte nel sistema. 

All’inizio eravamo in due. 

Da quando abbiamo cominciato a gestirlo in maniera, come dire, più intensa, più o meno nel 2020, eravamo in due, io ed Anna.

Poi nell’ultimo anno, anno e mezzo invece, abbiamo avuto molti più dire long term.

Quindi da essere noi due, più magari un volontario o due in maniera sporadica, magari per non più di un mese, massimo due, adesso siamo riusciti a passare al lavorare con dei programmi che finanziano questi volontari.

Essendo ora tra le 10 e le 12 persone a sedere a tavola, sicuramente la progettualità è cambiata parecchio.

Per esempio abbiamo dato molto più peso agli ortaggi e alla nursery.

Abbiamo anche una parte di vivaio interno che contemporaneamente ospita di solito tra le 3 e le 400 piante, che poi vengono piantate riformando il vivaio, ovvero viene ripiantato. 

C’è una parte,  che nonostante non sia a livelli di grandi numeri professionali di vivaismo, è una parte importante del progetto. 

Ogni anno credo che sforniamo circa tra le 800 e le 1000 piante, con i vari cicli di piantumazione, risemina o taleizzazione e così via. 

Questa parte sicuramente è cresciuta di molto rispetto all’inizio anche grazie all’acquisizione del nuovo terreno, la possibilità di sperimentare, non sperimentare, di applicare i sistemi agroforestali in maniera un po’ più agricola, nel senso con un’interlinea un po’ più comoda, di 4 metri e non più di 2 metri e mezzo. Lì sì che ci passiamo col trattore, trincia e così via.

In più negli anni, in particolare negli ultimi due anni, abbiamo diciamo cominciato delle collaborazioni con giardinieri e oleifici. Qui siamo nella terra degli olivi. Ci portano circa 300 tonnellate di materia organica all’anno, tra foglie d’ulivo, piante da cippare e potature da cippare. Forse di più di 300, 300 sono le foglie d’ulivo.

Insomma, ci siamo anche attrezzati tramite vari progetti con strumentazione più tosta.

Da pochissimo nel team fisso non sono più solo, ma siamo in tre e quindi c’è una persona, Enrico, che lavora più sulla parte eventi, comunicazione e gestione delle persone, dei volontari. Poi c’è Diego che si occupa della parte agricola full time,  quindi adesso riusciamo a distribuire meglio il lavoro.

Questo chiaramente ha visto un’impennata, in ciò che si riesce a raggiungere, che poi si riflette nella fertilità del suolo e anche nella crescita delle piante. 

Facendo un po’ un quadro d’insieme, a livello di punti critici e punti di forza, quali sono quelli che tu ritieni sono punti da attenzionare. 

Dunque, nella nostra esperienza, ha fatto tantissimo la differenza l’accesso alle risorse, in particolare nel nostro caso acqua e materia organica. 

Per esempio, da poco abbiamo un accesso un po’ più importante all’irrigazione che è un ventesimo di quello che viene effettuato in agricoltura convenzionale. 

Noi diamo circa tre litri di acqua ad albero ogni sette giorni in estate piena in Puglia, quindi, sono quantità molto inferiori rispetto a quello che succede, comunemente qui.

Però, l’accesso all’acqua sicuramente è un fattore critico che ci ha permesso di fare alcune scelte di piante un po’ più esigenti e che, senza, non consiglierei di fare.

Idem per la materia organica, anche nelle progettazioni, lo dico sempre, una delle cose cruciali è capire dove e come avere grandi quantità di materia organica, soprattutto gratis. Essendo grandi quantità, bisogna gestirle in modo che non sia un investimento che richieda quattro quinti del budget per arrivare alle quantità desiderate.

Noi abbiamo anche acquistato compost quando non avevamo avuto tempo di produrlo e sappiamo che cosa significa, anche in termini di realisticità di fare alcune cose, oppure no, le quantità che si possono usare, e se questo è un grande costo, oppure no.

Quindi questa è sicuramente una criticità che determina la scelta di un sistema piuttosto che un altro.

Idem il tempo. Da poco, appunto, abbiamo molta più”forza lavoro” che ci permette di cippare più potature o scariolare più foglie. Ci permette insomma di prenderci cura delle piante di supporto in maniera più adeguata, cosa che, invece, quando eravamo meno persone fisse chiaramente, non era possibile. Quindi sicuramente è un fattore importante da mettere in conto quando si progetta un sistema. 

E sì, la scelta delle specie, in alcuni casi noi siamo stati, un po’ testardi nel voler su piccole quantità provare delle piante nella speranza che sopravvivessero, magari piante che sapevamo non essere perfette per il nostro clima, ma essendo un po’ “plant freaks”, volevamo testare, volevamo provare. 

Abbiamo avuto qualche sorpresa positiva e inaspettata, vedi per esempio la paulownia in Puglia a cui non davo moltissimo. Non fa i numeri che si vedono magari in zone più piovose, però abbiamo piantato circa 1.704 paulownie, sono tutte vive e alcune hanno fatto anche i tre metri.

Abbiamo visto grandi differenze testando le stesse piante in zone diverse del terreno e avendo cominciato ad agire in punti diversi del terreno in tempi diversi.

Abbiamo visto dove nonostante l’incendio, nonostante tanti fattori contro, paradossalmente

il campo vecchio, quello su cui testavamo le nostre pratiche da più tempo, ha avuto una risposta di piante molto maggiore che, per esempio, il campo nuovo che partiva da fertilità zero, su cui comunque abbiamo investito 25 tonnellate di compost per 7.000 metri quadri, per dare due numeri. Ci siamo andati pesanti.

Nonostante ciò, il campo vecchio su cui avevamo da più tempo applicato compost fatti da noi, bio-fertilizzanti e la stessa potatura delle piante abbiamo avuto una risposta dopo l’incendio che era un po’ inaspettata ecco. 

Quindi, sicuramente un fattore critico è la selezione delle specie sulle grandi quantità.

Invece su piccole quantità, testare qualcosa che magari non ci si aspetterebbe, nel nostro caso si è rivelata a volte un fallimento, però a volte anche una scelta, che ci ha dato delle sorprese.

Secondo te il progetto, nel suo insieme, che impatto ha avuto o sta avendo sul territorio, con la cittadinanza e con le istituzioni? 

Allora, cittadinanza o meglio realtà locale. Sulla realtà locale, stiamo avendo un impatto, sicuramente.

Chiaramente pensano che siamo pazzi, ma ci rispettano e quindi ci riconoscono il lavoro intanto, cioè che non siamo fricchettoni, ma siamo convinti e ci vedono con piccone e trivelle in mano per piantare e, insomma, anche con forconi e pale a spalare materia organica, quindi c’è rispetto da quel punto di vista. 

Non abbiamo convinto tantissimi locali, né avevamo l’aspettativa, chiaramente il desiderio sì, ma l’aspettativa no, di farlo.

Penso che il più grande impatto, nel nostro caso specifico, sia più a livello, diciamo così, nazionale ed internazionale o perlomeno regionale, ovvero gente già convinta della bontà etica e, come dire, dell’idea dell’agroecologia o della permacultura, dell’agroforestry, dell’agricoltura rigenerativa e così via, e non è da convincere dal punto di vista etico e morale, ma a cui servono solamente gli strumenti, cioè a che temperatura giro il compost o qual è la specie migliore di supporto che cresce più velocemente in Salento o in provincia di Viterbo. 

Gente che già è convinta e vuole gli strumenti pratici per poi avere un impatto nel mondo fuori, della persona stessa, cioè nel mondo reale e non solo quello psicologico. 

Su queste persone penso che abbiamo un grande impatto. 

Abbiamo anche provato a tirare giù dei numeri, anche relativamente sottostimati, per stare tranquilli, e dall’ultima chiacchierata eravamo ad oltre 110 sistemi agroforestali progettati, circa mille persone passate dai nostri corsi e workshop tra Italia e altri paesi d’Europa che hanno partecipato a corsi nostri tenuti da Regen. Circa centomila alberi piantati non solo da noi, ma appunto da chiunque sia passato o da una consulenza, da una progettazione o da un corso con Regen.

Io penso che al momento questo sia un compito molto importante che realtà come Regen, come Deafal, Xfarms stanno portando avanti. Quello di non solo fare il cosiddetto attivismo di base, cioè convincere ad avere un buon comportamento nei confronti dell’ecosistema e del pianeta, ma dare degli strumenti pratici per poi trasformare, con un po’ di calli alle mani, quello che è qui fuori in campo, fuori in numeri di acqua, meno acqua utilizzata, meno pesticidi e così via, tutte le belle cose che chi è più o meno nel movimento ormai conosce a memoria. 

Ecco, questo è probabilmente l’impatto più grande. 

Dalle istituzioni in realtà, istituzioni locali, siamo stati anche finanziati, Regen è nata con un progetto regionale come associazione, non come persone, come parte, dico sempre, però sinceramente non vedo una grandissima conversione, interiorizzata nelle istituzioni. 

Penso che appunto anche lì stia a noi lavorare con questi progetti, magari europei o nazionali, regionali, varie fondazioni e così via, per convertire quelle risorse che spesso vanno anche a progetti magari dallo scarso impatto, a volte anche nemmeno positivo, convertirle appunto in iniziative che poi veramente portano a un cambiamento. 

Sicuramente questa è una di quelle iniziative che va a portare a conoscenza che esiste un’alternativa, qualcuno la sta già praticando, vai lì che a 50 chilometri da casa tua, dai un’occhiata, magari ti converti pure tu.

Vi concentrate molto su questa parte di corsi, di informazione e di divulgazione informale. Vuoi farci entrare un pochino più nel dettaglio dato che hai già iniziato ad accennare l’argomento?

Sì, allora noi organizziamo sia corsi di agroforestry qui nella nostra sede, anche workshop, dove non sono io l’insegnante, ma invitiamo degli esperti su temi specifici.

Per esempio per i corsi di produzione di funghi del micromondo, abbiamo invitato e avuto il piacere di invitare uno dei miei maestri Angelo Passalacqua, che è un esperto sia di semi di varietà tradizionali che di aridocoltura. 

Abbiamo fatto corsi di biocostruzione, terra cruda, che hanno a che fare con la sostenibilità, o meglio, pardon, con la rigenerazione e con l’ecologia in tutte le sue forme.

Sono eventi piccoli, di due tre giorni, la maggior parte. 

Oltre a questi organizziamo dei corsi un po’ più lunghi, dei corsi avanzati o degli intensivi, anche insieme, per esempio, a Marco Pianalto.

L’anno scorso abbiamo avuto due corsi in cui insegnavo con lui, insomma, cerchiamo sempre anche un po’ una scusa per rivedere gli amici, i compagni di avventure e di convinzioni. 

E quindi, sì, ci sono questi corsi dai tre giorni alla settimana, ci sono anche i PDC, Permaculture Design Course, sia in italiano che in inglese,  che sono corsi di 12 giorni, e oltre a questi poi proviamo a lavorare, a far finanziare, dei corsi, di una settimana, otto giorni. Proprio oggi, abbiamo fatto l’ultima submission per una proposta, un’application di un Erasmus+.

Insomma, proviamo a lavorare con vari fondi. 

Non è sicuramente la parte principale della nostra attività, la parte principale è quella agricola, di rigenerazione sul campo, e per quanto riguarda i corsi, sono quelli dove la gente, anche finanziando di tasca propria, chiede una formazione, su queste tematiche. 

Quest’anno abbiamo fatto il conto che il calendario 2025 dovrebbe, se tutto va bene, prevedere 38 eventi, tra corsi, workshop, eventi un po’ più conviviali.

E’ il primo gancio per tirarci dentro, magari qualcuno nel mondo dell’ecologia che viene per la pizza e diciamo…

Poi magari rimane per altro, certo.

A piantarci i cavoli, ecco. 

A proposito di questo, avete una quantità molto fitta di corsi e eventi, quindi, sicuramente una delle entrate principali di questo progetto è legata un po’ alla formazione di eventi. Ci sono altre forme di entrate che derivano direttamente dalla produzione dell’agroforesta o non ancora essendo ora una fase più di autoconsumo al momento?

 Allora, c’era più che oggi, purtroppo, la produzione dei mandorli, che erano, l’anno prima dell’incendio sui 750 kg di mandorle in guscio prodotte. 

In seguito all’incendio, con una quantità di mandorli molto inferiore, stiamo parlando, credo, di una trentina di alberi, 30-35, contro i 220 dell’anno prima, siamo comunque, abbiamo tenuto botte, sui 250 kg.

Quest’anno, quindi un anno dopo l’incendio, siamo su 300 kg. Un po’ di più, nonostante i mandorli siano rimasti gli stessi. La produttività, anche se chiaramente un anno per un altro non è un dato statisticamente interessante, sembra essere aumentata. Le proporzioni ci fanno capire che abbiamo tenuto botta, cioè anche quelli danneggiati, e non completamente distrutti, hanno prodotto qualcosa, mentre quelli invece non danneggiati, il triangolino che è rimasto salvo dall’incendio, sta vedendo un forte aumento della produttività. 

Facciamo anche piccole produzioni di origano, abbiamo fatto lo zafferano prima dell’incendio, poi purtroppo è andata persa tutta la parte che aveva zafferano.

Produciamo poi marmellate, dagli alberi da frutto, questo però non per merito nostro, nel senso che erano già presenti sul posto, noi abbiamo continuato la gestione. Abbiamo fatto marmellate di susine, fichi, albicocche, di frutta mista, però queste sono in piccole quantità. 

Il grosso erano le mandorle, e in realtà il risparmio che c’è stato dall’acquisto di ortaggi, quindi sì, autoconsumo, ma considerandolo anche un’auto vendita. Questo perché quando produci per 12 persone fisse, più i corsisti con picchi di 20-25 persone, per esempio durante l’ultimo corso eravamo in 42 a mangiare, quindi parte di questo cibo è stato prodotto qui. Chiaramente sono centinaia di euro che non spendi.

Certo, come se fosse un costo-opportunità. Dunque, invece parlando della scena organizzativa e gestionale, essendo appunto un ente del terzo settore, quali sono, se ci sono, le principali difficoltà che avete incontrato nel percorso?

La burocrazia! 

Il sorrisetto era proprio quello.

Sì. Io sono abbastanza allergico alla burocrazia, quindi, sicuramente per me personalmente, ma anche un po’ per noi, per chi prova a fare del bene e del giusto dovrebbe essere facilitato e non “difficilitato”. 

Sicuramente questa è una parte che tutte le volte ci toglie tempo ed energia. 

Ricordo sempre le parole di Jairo durante il corso di agricoltura rigenerativa, che diceva il campesino tiene che stare nel campo, il contadino dovrebbe stare in campo e non a fare carte, e diciamo allo stesso modo posso permettermi di rubare la citazione, estendendola un po’ a tutti i lavori che cercano di rigenerare, quindi che non sono puramente per un interesse economico-finanziario, ma che hanno una mission, una vision, che tendono a un bene comune più alto. 

Altra difficoltà, ovviamente, è stata l’incendio, è stato un punto di svolta, chiaramente, nella nostra piccola storia. 

Paradossalmente è stato anche apportatore di opportunità, nel senso che abbiamo trovato anche delle realtà che magari hanno cominciato a finanziarci le piante e quindi, anche se abbiamo perso 7.000 piante, quest’anno siamo stati in grado di piantarne 15-16.000 grazie anche al fatto che ci si sono avvicinate alcune realtà che poi hanno finanziato queste operazioni, più di quello che abbiamo perso. 

Quindi, questo è stato sicuramente un momento critico, ma allo stesso tempo, sicuramente tristissimo.

Il 19 luglio 2023 sicuramente è stato il giorno più triste della mia vita, però in un certo senso ha anche contribuito ad apportare risorse, persone che si sono avvicinate, che ora sono rimaste, in qualche modo, a contribuire alla realtà, alla nostra realtà. 

Chiaro. Certo, è stato un po’ un volano in un certo senso. Invece, cambiando un po’ tiro, ci sono dei luoghi all’interno del progetto, del sistema agroforestale che hanno un forte valore simbolico?

Non in maniera deliberata, ma appunto sicuramente il campo vecchio, tutte le volte che ci passiamo, ricorda l’incendio e, come dire, è una parte importante anche della nostra psicologia, forse più che spiritualità, poi non so dove il confine si possa collocare. 

Dal punto di vista motivazionale più che spirituale, perlomeno più classicamente inteso, sì.

Questa qui dell’incendio è un’area dove, ancora oggi, quando ci passiamo, io ho ancora negli occhi la materia organica incenerita, le piante cotte dal calore, il fumo e così via. 

Però delle zone specifiche, quello forse no. 

In realtà, di qui sono passate tante persone, ci sono stati anche degli eventi in cui qualcun altro ha lasciato qualcosa di spiritualmente importante, come un albero piantato per una nascita, offerto per una nascita.

Ecco, questo sì, non sono attaccamenti miei personali o nostri o del team attuale, però ci sono persone che sono passate di qui e che magari hanno piantato addirittura qualcuno per un aborto. 

Questo sì, è capitato.

Per me, diciamo, simboleggiano semplicemente la vita in generale, non queste piante specifiche, ma tutte quelle che abbiamo, tutti i lombrichi che popolano il nostro suolo e i microorganismi, semplicemente sono un ricordo del fatto che noi siamo uno dei tanti ingranaggi di questo ecosistema, o meglio, uno dei tanti organi. Non siamo i boss dell’ecosistema, ma semplicemente un fegato o un rene, insomma, uno dei tanti organi senza i quali l’organismo non funziona nel migliore dei modi. Quindi importanti, ma non gli unici importanti, questo sicuramente. 

Forse questo è il lascito spirituale più grande che riesco a prendere dalla gestione, o meglio, dalla co-gestione continua di un ecosistema.

Grazie mille. In chiusura nel questionario noi abbiamo riportato una definizione tra le tante di sistema agroforestale che è quella di Lundgren. Tu mi hai indicato che eravate parzialmente d’accordo, ci puoi magari spiegare in che modo? 

Ora non ricordo il testo.

Se vuoi te la, se vuoi te la leggo: “Agroforestazione è un termine collettivo per i sistemi di utilizzazione del territorio, in cui legnose perenni, alberi, arbusti, eccetera, sono cresciuti in associazione con le piante erbacee, colture, pascoli o animali, in una disposizione spaziale, una rotazione o entrambe. Ci sono solitamente interazioni sia ecologiche che economiche tra le colture legnose e altri componenti del sistema.”

Sì, dunque, intanto mi piacerebbe anche andare un po’ oltre la parola che va benissimo ora ai fini di comunicazione la usiamo anche noi. 

Benissimo, agroforestry. 

In realtà, nel logo di Regen, sotto non abbiamo scritto agroforestry, ma eco-agro-systems, eco-agro-sistemi che non è agro-ecosistemi con cui ci identifichiamo, chiaramente, ma, quello che forse manca è la parte evolutiva degli ecosistemi in cui mi ritrovo più vicino, per esempio, ad Ernst Götsch. Non è solo la coesistenza di piante legnose, alberi e arbusti con le piante erbacee, come può essere un grano, anche degli ortaggi, che magari, per esempio, è un po’ l’idea di un alley cropping, da lasciare immutata per i secoli dei secoli, no.

Piuttosto mi piace l’idea di eco-agro-sistemi, quindi sistemi in evoluzione, dove si usano magari, all’inizio, anche solo tutte erbacee, per arrivare ad un’evoluzione dell’ecosistema che preveda, nel nostro clima, il bosco, sostanzialmente. 

E’ un bosco che non è anche quello immutabile da cartolina, ma che viene co-gestito da noi animali disturbatori per creare radure e così via, ma che, appunto, in certi momenti non ha nemmeno un’erbacea, o perlomeno non una da pieno sole, come potrebbe essere un ortaggio, o in alcuni momenti, viceversa, all’inizio del sistema, magari ha pochissimi alberi ed arbusti, in alcuni casi. 

Quindi metterei fortemente l’accento sull’aspetto evolutivo del sistema, piuttosto che sulla compresenza delle erbacee con le legnose, sostanzialmente.

Era interessante capire ognuno come si rivede in un qualcosa che poi applica. E’ interessante vedere come ciò si ripercuota nel modo in cui uno declina il proprio lavoro. Grazie. Proprio in chiusura, ti chiedo se c’è un qualcosa che non abbiamo toccato, che invece hai piacere ad evidenziare.

Forse l’aspetto un po’ educativo e le motivazioni per cui alla fine si fa tutto ciò.

Penso che per esempio la parte agricola, produttiva, sia una parte importante da poter dimostrare.

Penso che oggi, chi adopera questo tipo di sistemi deve essere consapevole di partire “in svantaggio” in una gara sui 100 metri, sta partendo 20 metri indietro. Questo perché adotta delle componenti etiche nel suo decision making che i cosiddetti competitors magari non necessariamente hanno. 

E’ chiaro quindi che se tu ti poni già dei limiti, per esempio il miglioramento dell’ecosistema, seppur è vero che a lungo termine è anche economicizzabile, nel senso che si riducono gli input, i costi e così via, è anche vero che all’inizio sostanzialmente ci viene chiesto eticamente di pagare per qualcosa che dovrebbe essere semplicemente ovvio e obbligatorio, cioè inserirci nell’ecosistema, invece che depredarlo per soddisfare i nostri bisogni.

Detto ciò, le motivazioni dal mio punto di vista devono sempre, anche e soprattutto, essere di ordine etico-politico slash, fortemente ecologico, poi dobbiamo trovare la quadra economica per poter andare avanti.

Però sicuramente all’inizio, è più difficile e più complesso, ha una curva di apprendimento molto alta e in continuazione ci sentiamo dei beginners, anche se facciamo progettazione per altri, consulenze e così via, spesso e volentieri ci succede di scoprire qualcosa che mi faccia sentire un bambino alle elementari rispetto al giorno prima. 

Sicuramente la curva di apprendimento è molto alta, le competenze richieste sono tantissime su tanti campi per poter farla funzionare rispetto magari a chi produce pesche, solo pesche e una volta che ha trovato il canale di comunità e il rivenditore giusto di fitofarmaci, ora non voglio sminuire, però sostanzialmente sta a posto.

A noi invece serve saperne di microbiologia, serve saperne di marketing, serve saperne di politica, di connessioni sociali e così via. 

E’ un mondo molto più complesso quello di chi fa biodiversità agricola, di chi fa rigenerazione sicuramente. 

Detto ciò, penso che per chiunque voglia cominciare poi un sistema agroforestale o in generale sposare le pratiche rigenerative, deve sapere che è un po’ una scelta di vita, non vorrei dire monastica, però è una scelta importante. 

Intervista realizzata nell’ambito del progetto AGES_AGroforesta Ecologica e Sociale

AGES – AGroforesta Ecologica e sociale è un progetto sostenuto con i fondi Otto per Mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai 

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