Per capire l’entità delle agroforeste in Italia, Deafal ha condotto un’indagine delle realtà esistenti per comprenderne le caratteristiche, l’impatto ecologico e sociale e le tante peculiarità.
Questa serie di interviste nasce dalla volontà di raccontare alcuni dei progetti incontrati, come sono nati, cosa li caratterizza e il loro rapporto con il territorio e le persone che li circondano.
Le interviste sono state realizzate nell’ambito del progetto AGES, Agroforesta Ecologica e Sociale, finanziato dall’Istituto Buddhista Italiano Soka Gakkai, con il coordinamento della cooperativa sociale Qualcosa di Diverso, che gestisce l’azienda agricola XFarm agricoltura Prossima.
Qui intervistiamo Salvo del Saja Project nel comune di Paternò. Una rete di amici che porta avanti un percorso di economia rurale, decrescita, autarchia e Permacultura.
Come nasce progetto SAJA?
Il progetto è nato nel 2011 dall’idea di provare a mettere in pratica quelle che erano le nozioni che avevamo imparato durante un corso di permacultura.
Volevamo capire se delle persone nate, cresciute e vissute in città fossero capaci, non solo di trasferirsi in campagna, ma di viverci e di riuscire ad avere un entrata economica che permettesse di stare bene e di sperimentare in una zona segnata dalla monocoltura.
Volevamo mettere in pratica quelle nozioni che durante un corso sembrano delle idee geniali, quelle idee che ti fanno chiedere: “Perché nessuno le mette in pratica?”, o quantomeno “perché nessuno attorno a te le metta in pratica?”.
Grazie alla possibilità di sperimentare in uno spazio fisico e, nel tempo, di comprendere quali conoscenze mancassero e cosa fosse necessario approfondire, siamo riusciti a sviluppare il progetto. Capendo pian piano che c’era bisogno di imparare ancora molte cose, la progettualità è cambiata di anno in anno.
Chi ha vissuto il progetto dall’interno ha presto compreso la grande differenza tra teoria e pratica, rendendosi conto di quanto studio e sperimentazione fossero ancora necessari.
In particolare, ci siamo accorti di come nella fase iniziale dello sviluppo del sistema – che include il suolo, i microclimi e le strutture che nascono – certe piante non potevano sopravvivere, invece nelle fasi successive (parliamo tra i 5 e i 12 anni dopo), la stessa pianta riusciva a sopravvivere.
Non c’entra solo il cambiamento climatico, ma si tratta proprio del cambiamento della struttura del suolo, della sua trasformazione chimica.
Lo sviluppo è stato favorito da due fattori: la liberazione dei nutrienti prima immobilizzati nel suolo (ad esempio a causa del calcio) e l’effetto microclimatico degli alberi più alti, che hanno mitigato l’estate e reso l’inverno meno rigido, riducendo le gelate.
Il terreno Saja, il terreno su cui lavoro principalmente è situato sul fondo di una valle. Si tratta di 16.000 metri quadri di terra che inizialmente erano un agrumeto con 14 ulivi. Oggi quel terreno è molto altro, ed è solo l’inizio del progetto.
dove ci troviamo e come sei e come sei arrivato a questo terreno?
Il terreno si trova a Paternò, in provincia di Catania, a circa 20 Km più a nord rispetto alla città. Il clima qui è più da entroterra, più estremo: l’inverno può arrivare a -4 gradi, mentre d’estate si toccano anche i 47 gradi. Abbiamo degli estremi molto forti rispetto alla costa, dove le temperature sono più miti.
Siamo nel fondovalle di un fiume, abbiamo molta acqua a differenza di buona parte del sud Italia. L’acqua si trova già a tre metri di profondità, però noi utilizziamo principalmente quella delle sorgenti che vengono convogliate nella valle. Questa viene distribuita all’interno del progetto attraverso canalizzazioni che alimentano aree umide e laghetti fino all’uscita del terreno.
Ho acquistato questo appezzamento nel 2011, poiché il mio terreno è stato espropriato per realizzare le strade di accesso a un centro commerciale nei pressi di Catania.
La terra si trova lungo un fiume dove la vegetazione originaria è quasi del tutto scomparsa, sostituita da eucalipti e tamerici. Aggiungere piante come pioppi, salici, frassini, querce di fiume e altre specie autoctone ha fatto la differenza: al tramonto e all’alba tutti gli uccelli della valle vengano a vivere e a mangiare qui.
A distanza di 100 metri, nel terreno del vicino non c’è neanche un uccello, poiché non ci sono né insetti da mangiare, né della frutta a terra, né un riparo, né dove nidificare. Gli alberi sono tutti uguali, alti tre metri e trattati con i pesticidi. È un ambiente dove nessuna forma di vita si sente a casa, mentre un sistema con tanti alberi che riescono a cooperare, convivere e interagire tra di loro sicuramente è un ambiente che attira molta vita.
Per esempio, negli ultimi anni abbiamo avuto un boom soprattutto di rettili e anfibi, abbiamo una quantità di gechi esagerata (anche se lasciano i loro “segni” in giro!). Ci sono anche tantissimi ramarri, nonostante il ramarro sia quasi estinto in queste zone, poiché non ha più habitat. Ora, vederli muoversi tranquillamente tra le gambe mentre si lavora, fa un certo effetto. Ci sono anche biacchi, bisce, rane e rospi, ciò è dovuto alla presenza delle aree umide che abbiamo creato. Abbiamo popolazioni stabili di anfibi, mentre nel fiume non ci sono più.
Quest’anno, l’acqua che era già insufficiente, si è ridotta ulteriormente in quanto c’è stato il 100% di pioggia in meno rispetto all’anno scorso, che era già stato siccitoso. In questo momento nel fiume scorrono solo le acque reflue dei paesi, che non sono abbastanza per sostenere un ecosistema fluviale, è proprio un rivolo di acqua calda che non ha capacità rigenerativa in questa fase dell’anno. Non si era mai arrivati a questo punto.
Abbiamo anche avvistato il martin pescatore, altre specie di uccelli che girano nei dintorni del progetto. Non possiamo ospitare tutti gli uccelli, ovviamente, ma almeno, anfibi e rettili, che non hanno un posto dove andare, qui trovano un rifugio sicuro.
Questo è quello che sto notando sempre di più: il progetto non è solo un luogo di coltivazione, ma è anche un posto dove ospitare molte forme di vita, un rifugio sicuro.
Come si è evoluta la coltivazione nel corso degli anni?
La coltivazione è variata molto nel corso degli anni. Nella fase iniziale c’erano solo alberi di arancio e 14 ulivi. Col tempo, la scelta è stata di reinnestare parte degli aranci in modo tale da avere sullo stesso innesto diverse varietà di agrumi. In questo modo, invece di avere un’unica varietà in grande scala, è stato possibile avere delle quantità minori però su una scala diversificata, che commercialmente ci ha permesso di lavorare con famiglie, con i negozietti e con piccoli gruppi d’acquisto, senza dipendere dalla grande distribuzione.
Negli ultimi due anni, però, c’è una malattia degli agrumi che sta colpendo tutte le piante vecchie innestate ad arancio. Per questo motivo sto sostituendo quasi tutte le piante che manifestano questa patologia e le sto reinnestando a clementine e pompelmi, che non manifestano questo distaccamento rapido. Purtroppo, ora gli alberi di aranci sono molti meno rispetto a prima, degli iniziali 350 in questo momento ne restano circa 200-180. Nonostante gli alberi di arancio siano diminuiti, allo stesso tempo sono aumentate tutte le altre coltivazioni.
Da un punto di vista produttivo abbiamo un centinaio di melograni di 5 varietà in produzione, un uliveto diffuso di un centinaio di ulivi di 26 varietà distribuiti lungo i confini e nelle zone più asciutte del terreno. Questo ci permette di avere una certezza di raccolta ogni anno. Non ci interessa né il DOC, né il DOP, né l’IGP, né l’OGM, non ci interessano tanto le sigle. Mentre avere 26 varietà mi permette di raccogliere olive ogni anno e di avere almeno l’olio per casa e le olive da vendere schiacciate. In questo modo abbiamo convertito l’aspetto commerciale dell’olio in olive da mangiare.
A livello produttivo ci sono anche gli orti che occupano più o meno 1000 metri quadri per il nostro consumo e per la rete locale. Le verdure, quindi, non viaggiano, ma rimangono entro un raggio di 10-15 km e il surplus va alle galline, le cui uova rimangono nello stesso raggio degli ortaggi e dell’altra frutta.
Avere una decina di alberi per tipo non è vantaggioso su larga scala dal punto di vista commerciale, ma è perfetto per il consumo locale, che era il mio obiettivo. In passato con la sola produzione di agrumi, eravamo obbligati a spedire grandi volumi per un margine di guadagno piccolissimo. Per esempio su un chilo di arance ci prendi 1 euro, mentre con un chilo di melograni ne prendi 2. Con gli avocadi, magari ne prendi 6. Con il limone e la clementina puoi avere un margine di 1,50€. Bisogna, insomma, valutare bene il margine in modo da poter gestire la produzione nel modo migliore e bilanciare la distribuzione locale e quella a distanza.
Per l’anno prossimo, vogliamo puntare di più sull’aspetto del vivaio.
Vogliamo ridurre la produzione, dato che negli ultimi tre anni cinque nuovi progetti sono stati avviati da ex volontari e amici. Dopo il Covid, molti hanno acquistato terreni, spesso nella stessa area, con il rischio di una sovrabbondanza di arance e una competizione interna. Preferisco quindi concentrarmi sulla riproduzione delle piante, un’attività meno diffusa, e supportare loro nella produzione.
Ho a disposizione molte piante madri di semi che ho recuperato nei viaggi, negli orti botanici o da altri collezionisti e che si sono adattate a questo luogo. Questo fa la differenza, perché oggi tutto costa di più rispetto a quando ho cominciato io. In agricoltura, ora che i materiali costano il doppio, che gli attrezzi costano di più e che c’è molta più offerta, piuttosto che lottare con i miei compagni preferisco fornire un servizio unico.
All’estero esistono vivai in permacultura, ma in Sicilia trovare tutte le piante necessarie per questi progetti è difficile. Bisogna affidarsi a diversi vivai, tra cui quelli forestali e amatoriali.
L’ho notato molto con le progettazioni, la gente spesso viene qui per conoscermi, poi vede gli esemplari e dice: “Ma io vorrei questa pianta”. Al che rispondo che per potergli fornire la pianta che desiderano serve l’impiego di 2-3 anni, ma la gente ovviamente ha sempre fretta e non è contenta di aspettare tutto questo tempo. Così ho capito che era meglio produrre le piante a km 0 per chi ha il bisogno di iniziare. In pratica il vivaio permette di creare lavoro anche per altre persone.
Quando parli di “noi”, a chi ti riferisci? Il tuo progetto è di tipo familiare? Qual è per voi la relazione con la rete? Siete riusciti a costruire flussi di energie e dialoghi commerciali? Com’è la situazione dal punto di vista relazionale?
Il “noi” è un concetto molto ampio. Quando parlo di Saja, includo me stesso e le persone che stanno lavorando qui in questo momento. Che siano volontari o collaboratori, sono comunque tutte persone che vengono coinvolte all’interno del processo progettuale decisionale. Tengo in considerazione le opinioni degli altri, soprattutto per rendermi conto se sto prendendo una strada che risponde solo ai miei bisogni, o se è realmente un bisogno condiviso.
In un contesto più ampio, parlo di una rete regionale, è molto diffusa ed è utile in luoghi leggermente diversi. Nel gruppo più ampio c’è la rete siciliana che è uno spazio interessante in quanto siamo in molti, ma tutti diversi. Sapere che ci sono quelle 5-6 persone che vivono in province diverse, che hanno un’esperienza differente, ti aiuta a confrontarti.
Succede, ovviamente di non ritrovarsi nel modo di pensare o di agire. Soprattutto il modo di declinare concetti come permacultura o rigenerazione è molto vario.
A livello locale la fortuna è che queste persone hanno scelto di comprare dei terreni vicini, perchP nonostante il mio carattere volevano collaborare. Non si conoscevano tra di loro, ma col tempo è diventata una rete di persone che mi conosceva e conosceva Saja. Una rete di persone che ha scelto di interagire.
Molti vengono da percorsi diversi e hanno comprato agrumeti con caratteristiche lievemente differenti. C’è il musicista, c’è il “fricchettone”, c’è l’ingegnere che vuole progettare tutto, ma non sa piantare un albero.
Un aspetto positivo del gruppo è la diversità delle competenze: alcuni amano partecipare ai mercatini, altri preferiscono comunicare, mentre altri ancora non hanno interesse per queste attività. Questa varietà arricchisce e avvantaggia tutti. Su questa diversità si basa la ricchezza della rete. Bisogna riuscire a lavorare su quello che ci piace fare insieme, e poi ognuno può fare quello che vuole.
Come comunità ci riuniamo ogni volta che abbiamo un nuovo obiettivo, non per incontri fissi o sociali. Possiamo anche non vederci per mesi, ma quando emerge un tema importante, lo condividiamo, ci organizziamo e progettiamo insieme.
Un esempio sono le spedizioni delle arance. Abbiamo fatto più esperimenti, prima abbiamo lavorato in un gruppo, poi il gruppo si è sciolto, in seguito abbiamo provato con un altro gruppo.
Questo è un po’ il “noi”, anche se le modalità cambiano di volta in volta perché non abbiamo una rete formale. Inoltre in questo momento stiamo preferendo usare ognuno la propria fiscalità, sia per avere una struttura più flessibile, sia per collaborare senza vincoli stringenti. Non c’è il bisogno quindi di contratti extra.
Ognuno gestisce autonomamente tasse, IVA e contributi, permettendoci di crescere insieme senza conflitti legati a questioni fiscali. Questo approccio ci rende tutti coinvolti e ci consente di adottare un sistema flessibile, adatto alle esigenze di ciascuno.
Tornando al discorso agroforesta, come si sono evoluti gli obiettivi dalla tua creazione fino ad oggi?
L’evoluzione è avvenuta man mano che riuscivamo a scoprire quello che ogni specie può fare. All’inizio, il ragionamento era molto funzionale e centrato su cosa potevamo ottenere dalla pianta. Per esempio, sui libri leggi che un pioppo può essere utile da coltivare e poi abbattere. Questa visione “nazicolonialista” agroforestale si è pian piano ammorbidita nel tempo, grazie alla consapevolezza che ogni singolo elemento, ogni albero, non solo come specie, fa molto di più di quello che si riesce a contemplare in fase progettuale.
Mentre in una fase iniziale guardi a cosa la pianta può fare per te e pensi “biomassa”, come nel caso del pioppo, col tempo ti rendi conto che forse quella specie è adatta a crescere in quel luogo più di quello che avevi pensato tu di piantare. In questo modo ti rendi conto anche del fattore ecologico che va ben oltre oltre il proprio bisogno personale. Ti rendi conto di come può mitigare la temperatura e di come effettivamente riesci a stare meglio di altri perché hai un ombra più fitta, più densa, di cosa puoi crescere in quell’ombra. rendi meglio
Da qui lo sguardo va oltre alla biomassa e si accorge che ci sono i funghi e tutta una serie di miglioramenti in quel suolo che ti permettono di coltivare altre cose.
Quindi grazie a quell’ombra che prima non avevi mai conosciuto, ti rendi conto che alcune cose arrivano da sole, anche perché gli uccelli ti vanno a seminare cose che tu non avevi progettato di piantare lì, che crescono e stanno anche meglio di quelle che hai piantato tu.
Solo quando inizi a comprendere queste dinamiche, riconsideri il tuo ruolo di progettista, che spesso è legato all’illusione di ciò che pensi ti serva. All’inizio credevo di avere bisogno di un sistema agroforestale, ma a quel tempo il metodo sintropico non era ancora conosciuto, poiché non era stato tradotto. In realtà, lo schema di piantumazione che avevo seguito era molto simile a quello che poi ho scoperto essere chiamato sintropico.
Per me si trattava semplicemente di ottimizzare gli spazi: se ho l’irrigazione nell’agrumeto, pianto tra gli alberi senza tagliare gli aranci, aggiungendo piante diverse tra di loro. Inizialmente, usavamo anche gli spazi tra le file per l’orto, ma con il tempo è diventato difficile camminare e raccogliere. Così abbiamo deciso di rimuovere gli orti, creare passaggi più comodi e ridare spazio.
Questa configurazione è variata moltissimo nel tempo. Oggi la prospettiva è cambiata: nella fase iniziale l’obiettivo era rigenerare per permettere agli agrumi di durare di più e inserire altre specie. Questa rigenerazione è avvenuta, ma ora le priorità sono diverse. Oggi ritengo più fondamentale avere, ad esempio, ombra, legna da ardere, legno da costruzione, un frangivento e acqua. Obiettivamente, anche per la produzione di frutta il bisogno è diverso: serve più luce, perché la luce aiuta la maturazione della frutta meglio della fotosintesi di piante emergenti.
Nel momento in cui vai a lavorare su quello che non è un sottobosco vero, però un secondo livello, che può crescere sotto chiome di pioppi, pecan o salici, i quali sono più o meno a 8 metri di distanza l’uno dell’altro, l’ombra che si crea non è eccessivamente fitta, ma una mezz’ombra che filtra abbastanza luce, che permette la crescita di colture come i melograni che stanno meglio in questa mezz’ombra piuttosto che sotto la forza del sole pieno. Questo mi ha fatto capire che c’è molto più spazio di coltivazione di quanto mi aspettassi in quella fase iniziale.
Man mano che il sistema cambia, mi rendo conto di cosa può crescere in questi nuovi spazi. In pratica, la pianta che in quei sistemi aveva una vita breve, in quanto pianta di supporto, ora diventa la pianta principale.
Arrivato a questo punto, infatti, non mi importa più di guadagnare dalle arance, a me interessa che i pioppi tornino a colonizzare il basso fiume. Per me non ha senso tagliare le mie piante, lo farei per guadagnare cosa? 1000 euro in più di arance?Piuttosto cerco di capire cosa può crescere e cos’altro potrei provare a coltivare io in quell’ombra. Ad esempio, ho notato che il vivaio preferisce crescere in una leggera ombra, piuttosto che nel pieno del sole siciliano.
Oltre alle galline avete anche altri animali? Inoltre, ci puoi segnalare quali sono secondo te i punti di forza e al contrario i punti critici di questo sistema?
Dal punto di vista degli animali, in realtà abbiamo ridotto. I primi anni c’erano anche cavalli, cani e più gatti. Di anno in anno, però, man mano che morivano li abbiamo ridotti, sterilizzati o smessi. Le galline hanno uno spazio ben definito, chiuso e grande, appositamente per loro. Questo perché ci siamo resi conto che tutti questi animali addomesticati andavano a interferire con la fauna selvatica. Abbiamo quindi preferito lasciare che si espandesse ciò che qui dovrebbe stare naturalmente, piuttosto che aggiungere animali dipendenti da noi.
Non siamo in una zona dove ci sono cinghiali, o cervi e daini, quindi abbiamo un tipo di selvatico molto facile da accogliere.
Sicuramente il punto di forza principale negli anni è stata la capacità di cooperare con il sistema e impostare la gestione della biomassa come obbligo morale. Ogni pianta che mettiamo è una responsabilità. Questo allo stesso tempo è anche un punto critico.
Più piante si inseriscono, o si permette che si insedino, più biomassa c’è da gestire, e non si può far finta di niente, perché sono dei sistemi che ambiscono a mantenere una produzione alimentare. Sicuramente non mangio la legna per ora!
Per questo anche la potatura è un aspetto importante. C’è, quindi, la necessità progettuale di gestire questa energia, capire dove si tocca il materiale prima di essere trinciato, quale materiale può andare in biotrituratore, quale può andare sotto la trincia di un trattore e di conseguenza predisporre gli spazi in cui avviene.
Ciò implica progettare spazi che possono rimanere fermi anche per 4 mesi perché tutta la potatura deve asciugarsi prima di essere trinciata. Implica il progettare spazi che siano sicuri dal punto di vista degli incendi che sono un rischio sempre presente e che siano posizionati in modo logico per lo spostamento della biomassa.La biomassa, infatti, viene poi utilizzata per arricchire alcuni terreni che non sempre sono vicini al posto dove si pota.
Essa riesce a fare una differenza sostanziale che si nota nella sofficità del suolo. Se arriva un alluvione dopo un anno di siccità, per esempio, il terreno arricchito dalla biomassa è l’unico che anche quando viene allagato non ha mai avuto problemi di erosione, ma solo di accumulo. L’eliminazione dell’erosione è ciò che fa la foresta, e ciò che dovrebbe fare un agricoltore. Questo implica che in tutto quello che fai hai bisogno di meno input: meno energia, meno acqua, meno nutrienti. Questo perché il suolo ha un effetto spugna ed è davvero vivo.
Quando pianti oggi un albero, esso ha una crescita che dieci anni fa non poteva avere. È tutto un altro sviluppo, perché trova già una casa, una tavola imbandita e non un deserto ad aspettarlo. Il punto critico principale, secondo me, va a ricadere sulla capacità di trasmettere la gestione di questo spazio ad altre persone. La difficoltà maggiore è spiegare come gestire questa risorsa agli operai che lavorano qui solo per un numero limitato di giornate giornate e non capiscono cosa stiamo facendo o perché lo stiamo facendo.
In questi 13 anni ho notato che c’è una frustrazione costante tra gli operai, che devono agire in un modo diverso da come vedono dappertutto. Non sentono di star facendo la cosa giusta, anzi hanno paura di star sbagliando. Questo comporta che non puoi lasciare una persona da sola a gestire il terreno. Se lo faccio, lo lascio solo ai miei ex studenti o a persone che hanno già vissuto qui. Loro, almeno, mantengono il sistema senza intervenire troppo.
Riuscire a trasmettere questa competenza ad oggi mi sembra la cosa più difficile. Riuscire a far capire perché si taglia un ramo specifico, perché si lascia crescere una determinata pianta o perché non tagliamo un gelso nato spontaneamente. Trasmettere questa sensibilità è molto difficile e non si può insegnare in un corso: è un’empatia che si sviluppa solo quando ci lavori a lungo.
Bisogna distruggere quell’aspettativa dove tutto deve funzionare esattamente come progettato.
Questo, probabilmente, è il punto più difficile: dimostrare che il sistema non funziona perché sei fortunato, nonostante tu segui un’utopia, ma perché è fattibile e replicabile, anche se in modo diverso in ogni luogo.
All’inizio hai parlato della biodiversità che accogli in azienda. Hai qualche strumento per il monitoraggio della biodiversità?
Principalmente l’osservazione. È una differenza tangibile, anche se non non hai idea di cosa sia nello specifico. Si passa un confine visibile tra il terreno accanto e questo, per cui anche se non lo vuoi vedere, lo vedi. Non ho, però, uno strumento tecnico che si occupa di questo.
Un momento di questi 13 anni che ha ottenuto grande successo e, al contrario, uno sbagliato?
Probabilmente, la cosa che sconsiglierei è questa: quando magari ti dicono: “In natura non esiste la linea dritta, bisogna fare tutto con le curve, tutto bello, tutto sinuoso, perché tutto deve essere armonico e in movimento”, sono persone che non devono pulire col decespugliatore o col trattore.
E’ gente che ha mille metri di giardino e quindi fa tutto il figo.
Quando, invece, devi vivere e gestire il terreno, arrivando ad affrontare problemi come l’evitare che prenda fuoco, e hai tutto curvilineo, con alberi dappertutto, non puoi difenderti facilmente.
Una sorta di ordine, almeno lungo i margini e le zone a rischio, è necessario.
Non mettere vicini tutti gli alberi della stessa specie, per evitare il passaggio di una malattia è valido forse per 200 anni, ma se hai 10 albicocchi divisi su un ettaro e devi girare per 5 ore per raccogliere una cassa di albicocche, non è furba.Queste sono le cose che dicono di fare, che però io sconsiglio.
Quello che vedo è che tante volte si preferisce delegare a un progettista che potremmo essere noi “spiriti illuminati”, o magari altri che puntano solo ai soldi, per chiedere come si fa, quando a volte basterebbe guardare con i propri occhi cosa cresce in zona.
Basterebbe chiedersi cosa cresceva 50 anni fa, cosa è successo, perché non si coltiva più quella determinata cosa, cosa cresce ora nella propria area, cosa c’è nei giardini privati o cosa cresce all’orto botanico locale.
Questo elemento manca spessissimo, quantomeno nelle persone che conosco che iniziano un progetto.
Vogliono una mano a progettare, anzi sarebbe più corretto dire che non hanno la capacità di guardarsi intorno e chiedersi le domande giuste. Si fissano con l’acquisto di un terreno per coltivare determinate piante che spesso non possono nemmeno essere piantate.
Bisogna rendersi conto della realtà prima di dar per scontato che si possa fare tutto, perchè questo è un gravissimo problema.
Pensare: “Tanto me lo compro io il microclima, che mi importa”. Quando, invece, non funziona così, non puoi comprare il ph dell’acqua, non puoi comprare i minerali disciolti nel suono, non puoi comprare il clima attorno a casa tua, così come non puoi comprare il microclima.
La gente si deve scordare di arrivare e fare come vuole.
Un’ultima domanda: se dovessi pensare a una caratteristica che vi rappresenta quale sarebbe?
Credo che sia più facile capirlo venendo qui di persona. Chi è stato qui, anche solo una volta, probabilmente saprebbe descriverlo meglio di me. Quindi, se venite a vederlo, sarete voi a dirmelo.
Un sincero ringraziamento a Salvo per il tempo che ci ha dedicato, per averci raccontato dell’iniziativa Saja e per averci spiegato l’importanza di adattarsi alle condizioni del proprio territorio, imparando ad osservare e rispettare il paesaggio che ci circonda.
Intervista realizzata nell’ambito del progetto AGES_AGroforesta Ecologica e Sociale
AGES – AGroforesta Ecologica e sociale è un progetto sostenuto con i fondi Otto per Mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai