Per capire l’entità delle agroforeste in Italia, Deafal ha condotto un’indagine delle realtà esistenti per comprenderne le caratteristiche, l’impatto ecologico e sociale e le tante peculiarità. Questa serie di interviste nasce dalla volontà di raccontare alcuni dei progetti incontrati, come sono nati, cosa li caratterizza e il loro rapporto con il territorio e le persone che li circondano.
In questa intervista DIMITRI parla dell’agroforesta di montagna di TERRAVIVA.
com’è nato il vostro progetto di agroforesta e come lo state portando avanti?
Noi siamo collocati nelle valli Bellunesi, ci troviamo nell’estremo nord della regione del Veneto e siamo situati in una zona più o meno a 550 metri di altitudine dove prevale il bosco come ambiente. La nostra realtà agricola si estende su una superficie di circa due ettari, non interamente destinati alla coltivazione. Di questi, circa 7000 metri quadrati sono occupati da un bosco, mentre una parte del terreno è dedicata alla coltivazione di ortaggi per una CSA (Comunità Supportate dall’Agricoltura). Col passare del tempo, abbiamo cominciato a costruire fasce forestali, ne abbiamo due separate: una dove coltiviamo ortaggi, e un’altra, un po’ più scollegata, dove abbiamo piantumato un sistema equiline di castagni e di meli che saranno, in un futuro, introdotti nelle nostre CSA. Il nostro sistema si basa principalmente su un approccio agro-pastorale. All’interno del contesto forestale, integriamo ciclicamente animali, prediligendo specie di piccola taglia per adattarci alle dimensioni ridotte della nostra realtà. Ad esempio, utilizziamo oche che si muovono liberamente nelle aree di coltivazione, contribuendo all’equilibrio del sistema.
Qual è l’esigenza che vi ha spinto a integrare così tanta biodiversità? Considerando che praticate agricoltura di montagna, con una significativa presenza di superficie forestale e animali, quale problema o obiettivo volevate affrontare o raggiungere?
Quando siamo partiti con il nostro progetto agricolo, abbiamo fatto un’analisi del territorio in cui ci troviamo e ci siamo resi conto che il sistema più evocato nel nostro paesaggio è il bosco, come pattern principalmente. Abbiamo iniziato progettando dove fare filari, come costituire l’azienda, come collocarla, dapprima prendendo in considerazione i venti dominanti perché noi ci troviamo all’incrocio di due valli: la valle più piccola e il suo vento entra nella valle più grande e crea spesso, soprattutto quando ci sono i temporali o a inizio primavera e autunno, un vento costante. L’idea iniziale era di creare una sorta di frangimento, una sorta di barriera all’interno della quale coltivare. In questo spazio avremmo introdotto anche piante per ottimizzare gli spazi, puntando a una coltivazione non solo orizzontale ma anche verticale.
L’idea di inserire degli alberi è dovuta sia alla volontà di coltivare cibo, sia perché siamo un po’ fissati con la fertilità del suolo. Abbiamo quindi cercato una serie di dinamiche per riuscire a ridurre i nostri input esterni di fertilità: la risorsa più importante che abbiamo qui è il bosco, all’interno del quale ci sono sia piante da frutta che alberi che utilizziamo come frangimento e che ci aiutano a migliorare la fertilità e una serie di dinamiche che continuiamo a integrare.
Preferiamo definirci un’azienda agro-ecologica piuttosto che una semplice azienda agricola. Il nostro obiettivo non è solo produrre cibo, ma anche creare habitat, favorendo la presenza e l’integrazione di numerosi animali e insetti nel nostro ecosistema agricolo.
Gli obiettivi di partenza della progettazione sono cambiati nel tempo o sono rimasti gli stessi?
Gli obiettivi iniziali erano focalizzati sul bloccare i venti, ma successivamente sono cambiati a causa delle esigenze legate alle CSA. Abbiamo quindi deciso di integrare nei nostri orti, all’interno di un sistema complesso, piante specifiche che coltiviamo, come i meli, e di implementare la coltivazione verticale. Questo ci consente di produrre cibo non solo nelle aree dedicate agli ortaggi, ma anche in altre zone, ottimizzando lo spazio e migliorando la biodiversità.
Nel tuo discorso, menzioni spesso le CSA e l’importanza della comunità. In un contesto montano, ti chiedi come i colleghi agricoltori, allevatori e forestali vivano l’integrazione di un’azienda agro-pastorale? Come riuscite a coinvolgere la comunità in questo mix di attività?
Sono circa nove anni che abbiamo queste CSA e loro sono felici di questo “nuovo concetto” perché entrano in un’azienda che non è il classico arativo-seminativo, ma in una sorta di oasi che crea non solo cibo, ma anche benessere nel prossimo futuro. Sono entusiasti e supportano a pieno ciò che stiamo facendo.
I colleghi della zona invece non capiscono perché piantiamo alberi in un contesto dove, di fatto, siamo già circondati da boschi. Questa scelta non è facilmente accettata, come accade anche per il bosco in generale, perché la nostra attività è focalizzata sulla produzione zootecnica. Questo porta a una certa resistenza verso pratiche che non sembrano immediate o funzionali secondo il loro punto di vista. Per loro il bosco è un nemico perché si sta mangiando tutto il prato e quindi bisogna debellarlo e fermarlo.
Anche tra i forestali ci sono incomprensioni, poiché abbiamo introdotto alcune specie che non sono native di questa zona. Questo fa sì che la presenza di piante che non appartengono al paesaggio locale possa turbarli.
COME siete visti dalLe istituzioni del territorio e dalle amministrazioni locali? Che tipi di rapporti avete? C’è collaborazione?
Dalle associazioni locali, come quelle ambientali, la nostra realtà è ben vista. Siamo spesso invitati a partecipare a incontri e a collaborare con queste realtà, che riconoscono l’importanza delle nostre pratiche e l’impegno nella tutela dell’ambiente.
Le istituzioni, il comune stesso, tendono sempre a guardare altri interessi e quelli ambientali-ecologici sono sempre messi da parte. Le priorità sono altre, come le strade, i parcheggi, le piazze.
Però quelle poche volte che sono venuti a trovarci sono rimasti stupiti, hanno fatto degli articoli per diffondere questo sistema, questa metodologia di coltivazione, in modo un po’ scettico, ma è normale ci vuole del tempo.
Le nuove generazioni ci guardano con interesse.
Per l’avvio del progetto avete ricevuto del supporto economico, delle sovvenzioni?
Terraviva è partita con dei fondi nostri. La realtà è troppo piccola per entrare nel mondo contributivo e quindi facciamo soprattutto affidamento sull’aiuto della CSA. Noi ci troviamo bene, ogni cosa che facciamo la proponiamo e una parte dei soldi che entra dalla comunità viene destinata a nuovi progetti che abbiamo in mente.
I fondi che mettono a disposizione sono destinati ad aziende grosse ed è giusto così.
Siamo in territorio molto frammentato a Belluno e per mettere insieme un’azienda grande ben strutturata devi andare in cerca di terreni sparsi, di proprietari che spesso non sono presenti, quindi un casino e questo fa sì che le aziende rimangano abbastanza piccole. Non c’è abbastanza superficie in modo lineare da riuscire a creare aziende grosse.
Parlando di paesaggi e territori, in che modo hanno influenzato la progettazione?
I vincoli paesaggistici sono nel mio caso nulli, perché abito nelle Prealpi, sono circondato da boschi, non ci sono case, niente attorno, quindi per la piantumazione di alberi non ho grossi problemi.
Ci sono però delle distanze da rispettare, delle regole comunali sulla piantumazione degli alberi. Qui da noi mi sembra siano 5 i metri di distanza da mantenere rispetto a un’altra proprietà agricola. È difficile da gestire questa cosa perché siamo molto frammentati.
Ci racconteresti più nel dettaglio come nasce il vostro progetto nelle CSA ed eventuali vincoli?
L’idea iniziale era quella di offrire della frutta alle CSA, e i membri erano entusiasti di riceverla da noi. Tuttavia la competenza agronomica è nostra, quindi siamo noi a prendere le decisioni riguardo a quali piante piantare.
Per far comprendere meglio la tipologia di frutta che offriamo, un nostro cliente della CSA, che possedeva dei meli, ci chiese se fosse possibile includere i suoi prodotti nei nostri box. Questo è stato l’inizio di un progetto che ci ha fatto capire quanto fosse forte il desiderio delle CSA di avere frutta, soprattutto quella che si conserva nel periodo invernale, come le mele. La nostra stagione agricola termina a novembre, quando a causa del clima e del riposo invernale non siamo più visibili per un po’. Pertanto, da gennaio a marzo, le CSA necessitano di frutta che possa essere conservata, ed è per questo che abbiamo scelto varietà adatte alla conservazione.
Il progetto è stato realizzato in due fasi: la prima piantumazione è stata accompagnata da un corso di agroforestazione. Abbiamo ospitato il corso e coinvolto alcuni ragazzi nel piantare i meli. Due anni fa, abbiamo completato il progetto con l’impianto del resto dei meli per intensificare la produzione e soddisfare meglio le esigenze delle CSA.
Quante famiglie avete adesso o quante cassette consegnate?
Noi abbiamo 50 famiglie, in passato 55, ma poiché siamo solo io e Isa che ci occupiamo di questo, abbiamo deciso di ridurre. 50 da metà maggio e terminiamo a novembre. Siamo a 27 consegne. La comunità ha voglia di mangiare cibo buono.
Una curiosità sui meli: vengono coltivati esclusivamente per il consumo fresco o vengono anche destinati alla trasformazione, come per la produzione di sidro e simili?
Abbiamo due varietà, una da conservazione che è la mela rosa, una varietà mantovana, una mela antica che viene coltivata a vaso ed è quella piccolina, un’altra varietà prodotta da noi a metà ottobre e si conserva per tutto l’inverno e una parte della primavera. Poi abbiamo dei filari dove abbiamo piantato una varietà da trasformazione che ha un nome tedesco, una mela antica diffusa in trentino dagli anni ’50. Poi dove ci sono le fasce forestali ci sono delle varietà innestate in M9 da utilizzare per una produzione anticipata. Abbiamo messo l’M9 nel market garden perché hanno bisogno di più acqua e nutrienti.
Di frutta avete principalmente meli?
Meli e castagni sono le varietà principali, che abbiamo in grosse quantità. Poi abbiamo anche altri alberi da frutto: fichi, cachi, peri, susine, ciliegi. C’è una molta varietà.
Nel vostro progetto offrite anche altri servizi, come l’educazione, la ricerca e gli eventi. Potresti raccontarci di più a riguardo?
Ci sono diverse giornate, due o tre durante l’anno, dedicate alle CSA, durante le quali organizziamo un nostro evento. Da anni ospitiamo artisti locali che espongono le loro opere negli orti e sugli alberi. Prima delle mostre, organizziamo incontri su temi legati agli habitat e ad altri argomenti simili. Inoltre, ci sono diverse attività connesse all’associazione di cui faccio parte: ospitiamo corsi, formiamo agricoltori e, a volte, il nostro stesso paese ci chiede di accogliere bambini per eventi a loro dedicati, introducendoli al mondo dell’agricoltura.
In aggiunta, realizziamo anche attività extra che non svolgiamo direttamente sul campo, ma che servono per coinvolgere le persone e farle entrare nel nostro mondo.
Esiste un ampio gruppo su WhatsApp con circa 300 agricoltori italiani. Inoltre, abbiamo un altro gruppo WhatsApp dedicato alla nostra associazione, che conta 250 membri.
Qual è il punto che più vi rappresenta come sistema agroforestale?
Siamo riusciti a creare un ponte tra un sistema agricolo e una comunità non facile, nel nostro territorio, quindi siamo un piccolo luogo in cui diversi agricoltori della zona ci prendono come ispirazione. Terraviva è un luogo in cui siamo riusciti a portare le persone, i consumatori, direttamente in azienda a vedere come cresce il loro cibo.
Punti di forza e punti critici del sistema?
Punti di forza tantissimi. Al di là del miglioramento della biodiversità che si va a creare in azienda – e non parlo solo di insetti, ma anche di uccelli e di una serie di altre dinamiche che si creano all’interno della proprietà, come l’abbassamento di certe patologie – c’è tutta la gestione dell’ombreggiamento. Tutti dicono che l’ombra è un qualcosa di negativo, ma in realtà i boschi se potati, se gestiti al meglio, possono creare anche luce. C’è biomassa che si può integrare all’interno delle nostre culture-focus che sono gli ortaggi, quindi un sistema che mi permette di non fare troppa strada per avere del materiale pronto, disponibile, prodotto in loco. Radici che affondano in strati in cui gli ortaggi non riescono a captare nutrienti, la stoccano su di loro e io la ributto in superficie. Si simula ciò che fa la natura, coltivazioni in verticale, ottimizzazione degli spazi, pianti mellifere si produce anche miele.
Come fattore negativo c’è il fatto che si tratta di un surplus di lavoro. Noi inizialmente piantiamo piante che sono piccole e che crescono con il tempo e il sistema agroforestale va gestito, così io e Isabella dalle forbici per tagliare l’insalata passiamo alle ronche, alle seghe. C’è da potare, tagliare, abbiamo creato un sistema che stiamo incentivando a divenire un bosco, ma non vogliamo che diventi effettivamente un bosco, quindi va governato.
Inoltre in Italia c’è tanta sperimentazione, ma essa non deve essere fine a se stessa bensì deve comunque essere produttiva. Anche le essenze che si vanno a coltivare devono essere utili e non essere coltivate a caso. Spesso nel desiderio di piantare piante non si studia bene in modo approfondito cosa si va a mettere giù. Ad esempio la paulownia sembra facile da gestire ma in realtà non è così. Abbiamo delle varietà ibride, non rilasciano semi in giro, ma comunque sono difficili. Spesso si sottovalutano le piante introdotte e la complessità che si va a creare.
cosa ne pensate dei nuovi pagamenti dei servizi ecosistemici?
Abbiamo notato che, da quando abbiamo adottato questo sistema, la biodiversità è aumentata significativamente: ci sono nidi di uccelli, insetti e diversi tipi di impollinatori. Più il sistema diventa complesso, con l’incontro tra bosco e prato, più vediamo arrivare nuovi uccelli, alcuni tipici del bosco, altri da prateria, che trovano una nicchia nel nostro ambiente. Questo è possibile grazie all’intero sistema, che include anche stagni e diverse aree dell’azienda create per favorire queste popolazioni di insetti, come siepi lasciate ai margini, rovetti, e così via.
Si tratta di un sistema che esiste da tempo, simile a quello delle colture promiscue, che prevedevano terreni frammentati da fasce in cui si coltivava l’uva, ma dove crescevano anche alberi come aceri, noci, gessi. Noi stiamo riprendendo lo stesso approccio, ma con una maggiore conoscenza. Non stiamo facendo nulla di nuovo. Anche quei sistemi storici favorivano una grande biodiversità. Un esempio è l’upupa, un uccello migratore.
COME MONITORATE l’incremento della biodiversità nell’azienda agricola?
Io mi sto appassionando all’ornitologia quindi ho sempre il binocolo in campo e poi ogni tanto mi leggo paper di qualche studio che riguarda l’incremento e la diminuzione di certe popolazioni. Ad esempio la rondine è calata tantissimo quasi del 70-80% nella pianura padana. Ci sono anche studi legati alle mosche, che per noi rappresentano un problema, soprattutto in una provincia zootecnica. È importante conoscere gli uccelli che contribuiscono a ridurre la popolazione di mosche, così possiamo promuoverli nel nostro ambiente. Avere sei rondini riduce il 70% delle mosche. Noi monitoriamo ogni anno cosa c’è e spesso mi affido a dei colleghi forestali o amici che mi danno delle dritte e informazioni.
Intervista realizzata nell’ambito del progetto AGES_AGroforesta Ecologica e Sociale
AGES – Agroforesta Ecologica e Sociale – codice progetto 2022-2018_AMB_2 – progetto sostenuto con i fondi Otto per Mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, con il coordinamento della cooperativa sociale Qualcosa di Diverso, che gestisce l’azienda agricola XFarm agricoltura Prossima.
